Un taccuino agricolo per condividre conoscenze agronomiche

Autore: Angelo Sarti

Effetti dello stress termico nel mais

L’effetto nocivo delle temperature elevate (ipertermia) sulle piante  è strettamente legato con altri fattori ambientali come la luce, l’umidità atmosferica e la disponibilità di acqua nel suolo. Si tratta di un’interdipendenza molto stretta ed è molto difficoltoso distinguere gli effetti dei singoli fattori sulla pianta.  E’ evidente, ad esempio, che l’innalzamento della temperatura  potrà provocare risposte delle foglie sensibilmente differenti in funzione dell’umidità atmosferica. Sarà inoltre determinante la possibilità della pianta di poter compensare l’aumento di traspirazione con l’assorbimento radicale, correlando quindi gli effetti dello stress termico con il  contenuto di umidità nel suolo.

I danni dello stress termico

I danni da ipertermia sui vegetali possono essere distinti in:

  • Danni secondari: quando dipendono sostanzialmente dal manifestarsi dello stress idrico;
  • Danni primari indiretti: si manifestano in genere in seguito ad una esposizione continua e a lungo prolungata di temperature moderatamente elevate;
  • Danni primari diretti: sono quelli che avvengono in conseguenza di shock termici di breve durata, a temperature più elevate.

L’aumento delle temperature, oltre i limiti fisiologici delle piante, può rallentare o bloccare la crescita  dei vegetali con conseguenti danni alla produttività, senza che apparente si manifestino sintomi visibili.  In questa fase il ripristino di condizioni ambientali più favorevoli possono ancora limitare i danni economici alla coltura.

L’innalzamento termico può anche arrivare a causare un blocco irreversibile nella crescita qualora giunga a provocare danni metabolici irreversibili. Il processo fotosintetico, in particolare, è particolarmente sensibile alle alte temperature, potendosi bloccare a livelli termici parecchio più bassi di quelli che provocano l’arresto del processo respiratorio. Di conseguenza anche quando i valori termici  provocano l’arresto della fotosintesi,  il processo respiratorio può comunque continuare con consumo delle riserve sino all’esaurimento.

Sono stati osservati anche effetti rilevanti dello stress termico sulla quantità e la qualità delle proteine. Le temperature elevate possono interferire  con il metabolismo proteico giungendo, in casi estremi, alla denaturazione delle stesse o alla coagulazione. Effetti negativi si possono avere anche sui lipidi che compongono le membrane delle cellule e di altre strutture cellulari come i mitocondri e i cloroplasti, organuli che sono rispettivamente sede dei processi respiratori e fotosintetici.

La capacità delle piante di rispondere all’innalzamento termico con meccanismi di termoregolazione è piuttosto limitata e la regolazione della temperatura è sostanzialmente dovuto all’effetto raffreddante della traspirazione. La temperatura delle piante dipende pertanto essenzialmente dall’ambiente nelle sue due componenti: aria e terreno. Si può qui citare, a titolo di esempio, uno studio condotto da Edgington e Walker (1957) sulle fluttuazioni giornaliere della temperatura interna di piante di pomodoro in relazione all’intensità di traspirazione. Si è visto che l’aumento della traspirazione, massima nelle ore diurne, coincide con una diminuzione della temperatura interna della pianta per effetto del raffreddamento esercitato dal flusso idrico  alla temperatura del terreno. Si sono osservate differenze di temperatura di 10°C e più tra le temperature interne di fusti di piante vive e morte in piena insolazione.

Il mais

Nel mais la temperatura ottimale è compresa tra i 24° ed i 30°C  in funzione della disponibilità idrica e dello stadio vegetativo della pianta. I valori massimi sono richiesti in corrispondenza della fioritura – allegagione (Giardini A.,  1989).

Fioritura – impollinazione

La fase di fioritura – impollinazione è quella in cui lo stress termico può maggiormente compromettere le future rese della coltura. Le alte temperature spesso si accompagnano allo stress idrico, tanto che non è sempre facile separarne i singoli effetti. Si può comunque affermare che qualora nel terreno sia presente una adeguata umidità, le alte  temperature di per sé non mettano a dura prova l’impollinazione.

La fioritura femminile

Le sete che emergono dalla spiga sono, come è noto, gli stigmi dei fiori femminili. Ogni seta è collegata a un singolo ovulo, cioè ad una potenziale cariosside. Le sete iniziano a svilupparsi 10-14 giorni prima che si rendano visibili emergendo dalle brattee che avvolgono la spiga. L’allungamento delle sete inizia da prima  dagli ovuli basali delle spiga, quindi procede progressivamente verso l’apice.

 Una volta emerse continuano ad accrescersi piuttosto velocemente per 1-2 giorni, per poi rallentare progressivamente nei giorni successivi. Comunque il loro allungamento si interrompe poco dopo che un granulo di polline si deposita su di esse germinando. Se non impollinate, l’accrescimento delle sete si interromperebbe una decina di giorni successivamente all’emergenza; sete insolitamente lunghe possono essere, infatti, un indicatore di una cattiva impollinazione della spiga.

Lo sviluppo delle sete solitamente avviene in sincronia con il rilascio del polline, agevolando così l’impollinazione. Le condizioni di stress possono interferire con questa sincronia. La siccità in questa delicata fase è il più pericoloso fattore di stress, soprattutto quando è accompagnata da alte temperature e bassa umidità atmosferica. Le sete hanno un elevato contenuto in acqua, maggiore di un qualsiasi altro tessuto vegetale. Sono quindi molto sensibili alle variazioni di umidità nella pianta e quindi alla siccità. Questa può ostacolare o rallentare il loro allungamento ritardandone la fuoriuscita oppure, nelle peggiori condizioni ambientali, impedendola. Si avrà quindi  una cattiva impollinazione delle spighe qualora il rilascio del polline è ormai finito o è insufficiente.

Nelle  condizioni di stress termico e idrico con bassa umidità atmosferica le sete possono facilmente essiccare, perdendo la recettività al polline.

Alcuni ibridi selezionati per la tolleranza alla siccità, avendo una crescita delle sete più veloce in condizioni di stress idrico, consentono di prevenire questo problema. Tuttavia non mancano le “controindicazioni”. In condizioni ottimali di sviluppo delle sete, questa maggiore rapidità di sviluppo può anticipare di 4-5 giorni la loro comparsa, anticipando sensibilmente il rilascio del polline, riproponendo i problemi di mancata allegagione.

La fioritura maschile

Anche il rilascio del polline (antesi) e la sua vitalità, quindi la sua capacità fecondante, possono essere seriamente compromessi dalle elevate temperature unite alla siccità.

Il polline viene rilasciato per lo più dalla prima mattinata fino a metà di essa, quando la temperatura è ancora relativamente bassa. Un secondo rilascio può talvolta avvenire nel tardo pomeriggio con temperature più fresche.  Umidità e temperature sono due fattori chiave durante la deiscenza.  E’ stata osservata una riduzione della dispersione del polline quando le temperature superano i 30°C. I granuli di polline rimangono vitali per 18 – 24 ore in condizioni favorevoli, mentre la loro vitalità si riduce a un paio d’ore in condizioni di caldo estremo. Temperature superiori a 37°C  causano un forte stress al polline che può disseccare ancor  prima di fecondare l’ovulo. Le alte temperature possono  anche ridurre la vitalità del polline prima che venga rilasciato dalle antere.

Accrescimento delle cariossidi

Abbiamo ricordato più sopra come le elevate temperature diurne possano causare una riduzione della capacità fotosintetica. Questo aspetto, presente anche nel mais, determina una riduzione della produzione di zuccheri destinata a ripercuotersi sulla produzione finale del mais. Qualora le temperature elevate persistano durante la notte il danno produttivo si aggrava. In queste condizioni nelle ore notturne l’attività respiratoria si mantiene elevata con conseguente consumo di zuccheri. Temperature più basse di notte in genere favoriscono anche la traslocazione dei carboidrati verso gli organi di riserva (cariossidi).

Successivamente alla fecondazione, condizioni di siccità o stress termico possono provocare l’aborto degli ovuli fecondati. I chicchi abortiti hanno piccole dimensioni, spesso di colore biancastro.  Le cariossidi sono maggiormente suscettibili a questo danno nelle due settimane successive alla fecondazione, in particolare lo sono quelle prossime alla punta della spiga. Va comunque ricordato che l’aborto delle cariossidi può anche essere provocato da qualsiasi fenomeno che limiti l’attività fotosintetica, quindi la disponibilità di fotosintetati, durante o subito dopo la fecondazione. Oltre gli stress da calore e da siccità, possono essere chiamati in causa, quali responsabili del danno, le carenze nutrizionali (soprattutto azoto), le  perdite del tessuto fogliare dovute a patogeni o a grandine ecc.

Stress idrici e termici possono portare ad una prematura morte della pianta con precoce arresto dello sviluppo delle cariossidi.

Le perdite di resa, approssimativamente calcolate, conseguenti alla prematura morte delle foglie, ma non degli steli, si stimano essere:

  • 36%, quando la morte si verifica allo stadio R4 (maturazione cerosa),
  • 31%, allo stadio R5 (formazione del dente nella cariosside),
  • 7%, a metà della linea del latte dello sviluppo della cariosside.

Bibliografia

Goidànich G. (1983): Manuale di patologia vegetale, volume primo. Edizioni Agricole Bologna.

Matta A., Pennazio S. (1984) Elementi di fisiopatologia vegetale, Pitagora editrice Bologna.

Baldoni R., Giardini L. (1989): Coltivazioni erbacee. Patron Editore Bologna.

Fonti web consultate il 23-07-2022 :

https://www.specialtyhybrids.com/en-us/agronomy-library/high-temperature-effects-on-corn-pollinations.html

http://www.kingcorn.org/news/timeless/Silks.html http://www.kingcorn.org/news/timeless/GrainFillStress.html

Le sommatorie termiche nel mais

La lunghezza del ciclo fisiologico di un ibrido di mais viene espresso come numero di giorni, il tempo medio che intercorre tra l’emergenza e la maturazione fisiologica. Si tratta, come è ben noto, di un valore indicativo che può variare,  allungandosi nelle annate e negli areali più freschi oppure,  all’opposto,  riducendosi con l’aumentare delle temperature.

Uno dei fattori determinanti nello sviluppo delle piante, quindi anche del mais, è la temperatura atmosferica. Questo parametro, in assenza di fattori limitanti come la disponibilità di acqua ed elementi nutritivi, attacchi parassitari ecc., consente di mappare la lunghezza delle diverse fasi fenologiche del mais e in definitiva della durata del ciclo fisiologico di un ibrido; in pratica il suo profilo fisiologico. Per poter fare ciò è necessario introdurre il concetto di sommatoria termica giornaliera.


La temperatura e le piante

Diversamente da quanto accade in alcuni animali, le piante non sono in grado di riscaldare i propri tessuti con la respirazione, se non in misura minima. Possiedono un’ampia superficie disperdente, data s dall’ampio sviluppo fogliare, che permette loro di mettersi in equilibrio termico con l’ambiente. 

L’effetto della temperatura ambientale sulle piante è notevole, dipendendo da essa tutti i processi connessi al loro sviluppo. Essa influenza direttamente l’intensità di varie funzioni (germinazione, fotosintesi, assorbimento radicale ecc.). Sostanzialmente la temperatura agisce attraverso l’attivazione dei vari processi enzimatici coinvolti nelle citate attività biochimiche.

Sono altresì influenzati dalla temperatura diversi processi microbiologici del suolo, come ad es. l’umificazione e la nitrificazione, di primaria importanza nel sistema suolo-pianta, ma di non stretta pertinenza con l’argomento di questa nota tecnica.

Ritornando al ruolo della temperatura nello sviluppo della pianta introduciamo i concetti di temperatura di base e temperatura ottimale.  

La temperatura di base è quella al disotto della quale non si ha sviluppo della pianta. Può variare a seconda delle specie vegetali e , nell’ambito della stesse specie, non è costante, variando durante il ciclo di sviluppo della pianta (la temperatura di base per la germinazione non è uguale a quella per la fioritura o la maturazione)

Definiamo temperatura ottimale quella in corrispondenza della quale una determinata funzione vitale si svolge con la massima velocità.

La “forchetta termica” entro la quale avviene si raggiunge una determinata fase fenologica, es. la fioritura, sarà quindi compresa tra la temperatura di base e la temperatura ottimale.  Il tempo che una pianta impiega per raggiungere un determinato stadio fenologico -nel nostro esempio la fioritura – dipende dall’energia che la pianta progressivamente accumula nel tempo. In altri termini dipenderà dalla temperatura ambientale, essendo questa strettamente legata all’energia assorbita.

In termini di crescita della pianta, lo sviluppo raggiunto in condizioni di 20° per un periodo di 10 giorni è pari a quello di 20 giorni a 10°C; in entrambe i casi la pianta avrà accumulato 200°C.


 Gradi giorno di crescita o GDD (Growig Degrees Day)

Una volta che arriviamo a padroneggiare questo concetto possiamo facilmente capire come sia più conveniente esprimere la lunghezza del ciclo fisiologico di una pianta, ad es. il mais, non in giorni, ma in un tempo necessario per accumulare il quantitativo di calore (quindi di temperatura) necessario per completare il ciclo fisiologico o una qualsiasi altra fase fenologica, come la fioritura.

Anziché i giorni risulta più corretto esprimere la durata del ciclo fisiologico in un tempo termico o sommatoria termica, dovrebbe esprimere il quantitativo di calore accumulato dalla coltura in determinato periodo.  L’unità di misura per arrivare a calcolare la sommatoria termica sono i gradi giorno (°Cd).

Esistono svariati algoritmi per il calcolo dei gradi giorno; quello più comunemente utilizzato fa ricorso ai gradi giorno di crescita o GDD ( Growing Degrees Day) calcolati a partire dalla temperatura massima e minima giornaliera dell’aria e dalla temperatura di base del mais (10°C) secondo la seguente formula:

(1) GDC = ((T massima giornaliera + T minima giornaliera) /2 )- 10°C 

Le temperature cardinali, minima o massima, sono quelle al di sotto o al di sopra delle quali una funzione vitale della pianta si arresta.

Per eliminare l’effetto di temperature basse o alte che impediscono o ritardano la crescita del mais vengono utilizzati  vincoli sulle temperature massime e minime.

  • Quando la temperatura massima dell’aria è maggiore di 30° C poiché il tasso di crescita non aumenta oltre tale temperatura si imposta il valore di 30°C nell’equazione (1);
  • Analogamente quando la temperatura minima dell’aria è < 10°C, si imposta tale valore nell’equazione.

Esempi:

  • T max 26°C e T min 12; l’accumulo di GDD per il giorno sarebbe ((26+12)/2)- 10 =  9 GDD
  • T max 32°C e T min 22; l’accumulo di GDD per il giorno sarebbe ((30+22)/2)- 10 =  16 GDD
  • T max 20°C e T min 5; l’accumulo di GDD per il giorno sarebbe ((20+10)/2)- 10 =  5 GDD

Danni da freddo su mais nelle fasi iniziali del ciclo colturale

I danni da basse temperature su mais nella  fase iniziale di crescita dipendono sostanzialmente da:

  • stadio di sviluppo della coltura
  • temperatura dell’aria
  • umidità del suolo
  • tessitura del terreno.
Foto:AngeloSarti

In caso di abbassamento termico probabilmente non si avranno danni significativi se il punto di crescita si trova al disotto della superficie del suolo o se la temperatura non è scesa oltre  -2°C.

Tecnicamente il punto di crescita è costituito da un meristama, un tessuto in cui le cellule hanno la capacità di moltiplicarsi e di differenziare tessuti vegetali. Una volta che la cariosside è germinata, il meristema apicale del germoglio inizi a differenziare i primordi di tutte le foglie della pianta, eccetto le prime 4-5 foglie della giovane pianta, che si sono formate al momento dello sviluppo dell’embrione nella cariosside, quindi nella stagione precedente alla germinazione.

Dove è posizionato nella giovane pianta il punto di crescita (Growing point)

Temperature inferiori a -2°C possono congelare le piantine provocando, entro le 24 ore, i tipici sintomi da congelamento (ingiallimenti, appassimento delle piante ecc.).

Si può avere anche imbrunimento del fusticino, ma se il punto di crescita non viene danneggiato vi sono buone possibilità che la pianta possa sopravvivere e riprendersi.

Il punto di crescita – detto anche  punto vegetativo –  si trova al disotto della superficie del suolo  fino allo stadio di crescita V5 (pianta con 5 foglie completamente sviluppate) nella maggior parte degli ibridi. Ciò contribuisce a proteggerlo dal gelo. Tuttavia  valori termici  inferiori a -2°C per alcune ore possono arrivare a danneggiarlo causando danni irreversibili.

Consistenza solida e colore bianco o crema stanno a indicare che il punto di crescita non ha subito danni e che la pianta è viva e con capacità di ripresa.  All’opposto, un punto di crescita di consistenza morbida e imbrunito risulterà sicuramente danneggiato irreversibilmente, con conseguente morte della pianta.

In questo caso la plantuala è stata danneggiata dalle basse temperature anche se il coleoptile si trovava ancora sotto la superficie del terreno – Foto: Angelo Sarti

Valutazione del danno

In condizioni climatiche favorevoli, entro 3-5 giorni dalla gelata la comparsa una nuova foglia segna l’avvio della ripresa dello sviluppo della pianta. Può accadere occasionalmente che le vecchie foglie morte ostacolino l’emergenza della nuova vegetazione  conferendo alla piantina un aspetto contorto.

Trascorsi  3-5 giorni dalla gelata sarà quindi possibile, tramite scouting sul campo, valutare con maggiore precisione l’entità del danno. Le piante sopravvissute dovrebbero  iniziare a produrre nuove foglie, consentendo all’agricoltore di stimare con maggior precisione le perdite.

Un clima caldo e asciutto favorisce il recupero, mentre  giornate umide e fresche possono agire  negativamente.

Un altro fattore che può condizionare la capacità di recupero delle piante dopo il calo termico è rappresentato dallo stato di salute delle stesse prima del verificarsi dell’evento. Danni da erbicidi, attacchi di parassiti, umidità eccessiva del suolo ed altri fattori di stress per la pianta possono penalizzarne la capacità di risposta e ripresa dopo il danno da freddo.

Il tasso di sopravvivenza  e l’uniformità del campo potranno fornire indicazioni sul potenziale rendimento della coltura, consentendo di valutare anche una possibile risemina.

Lo zolfo in fitoiatria

Lo zolfo è sicuramente uno dei più antichi prodotti antirittogamici utilizzati in agricoltura. La sua affermazione risale a metà Ottocento, quando se ne dimostrarono le doti fungicide nei confronti dell’Oidio della vite. Un giardiniere inglese, E. Tucker, nel 1845 osservò strane macchie sulle foglie delle viti allevate in serra a Margate, presso la foce del Tamigi. L’attento giardiniere inviò un campione di foglie ricoperte dalla misteriosa polvere biancasta a Miles Joseph Berkley, un reverendo che si occupava con profitto di micologia (gli si attribuisce la classificazione di circa 6000 specie fungine), considerato uno dei fondatori della moderna patologia vegetale. L’attento studioso non faticò a identificare come responsabile di quella manifestazione un fungo che denominò Oidium tuckeri, in onore dell’omonimo giardiniere. Nel frattempo era già iniziata la disastrosa avanzata dell’Oidio. La malattia pochi anni dopo si diffuse in Francia, per poi arrivare anche in Italia nel 1850. Alla ricerca di un rimedio per combattere il fungo, nel 1860 un altro girdiniere inglese, Kyle, si accorse che i trattamenti con lo zolfo avevano la capacità di ostacolarne lo sviluppo. I forti pegiudi sorti attorno allo zolfo ostacoleranno però per diversi anni l’impiego di questo prodotto in agricoltura. Più tardi l’utilizzo si diffonderà anche in frutticoltura, orticoltura e floricoltura , nella lotta alle Erisifacee (Oidi).

Oggi sappiamo che oltre che nei confronti dei funghi responsabili dell’Oidio o “mal bianco”,

Di Maccheek at English Wikipedia, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=971184
Oidio su grappolo
Di Maccheek at English Wikipedia, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=971184
Erinosi su vite

lo zolfo è in grado di svolgere un’efficace azione di contenimento nei confronti di diversi acari eriofidi, come l’Eriophyes vitis (Erinosi della vite, vedi foto) e Calipetrimerus vitis (Acariosi della vite)

Altre malattie fungine nei confronti delle quali viene riconosciuta un’azione collaterale dello zolfo sono:

  • Escoriosi (Phomopsis viticola)
  • Ticchiolatura del melo (Venturia inaequalis)
  • Nerume delle drupacee (Cladosporium carpophilum)
  • Patina bianca del melo (Thialopsis spp.)
  • Black rot (Guignardia bidwelli)

Meccanismi d’azione Sin dalla sua introduzione sono state avanzate diverse ipotesi sui possibili meccanismi d’azione dello zolfo. Attualmente si ritiene che agisca allo stato di vapore rompendo parete e membrana cellulare dei funghi attraverso una azione liposolvente e disidratante. A livello della catena respiratoria entra in competizione con l’ossigeno, impedendo la formazione di ATP, con perdita di energia a livello cellulare. Agendo a livello cellulare su più bersagli (azione multisito) non crea problemi di resistenza. Sappiamo che la sua azione fungicida dipende dalla temperatura, dall’umidità relativa dell’aria e dal grado di finezza delle particelle. Per esplicare la sua azione biologica deve infatti passare dallo stato solido a quello di vapore. Questo passaggio di stato è ostacolato dalle basse temperature e dall’elevata umidità, con conseguente riduzione d’efficacia fungicida. Gli zolfi più fini iniziano ad essere attivi intorno ai 10-12°C, mentre i formulati con particelle più grosse necessitano di almeno 18-20°C. Oltre i 28°C lo zolfo può divenire fitotossico, in misura maggiore quanto più fini sono le particelle. Le elevate temperature inducono infatti un elevato passaggio allo stato di vapore Il grado di finezza delle particelle di zolfo nei diversi formulati ne influenza dunque l’efficacia. Gli zolfi per trattamenti liquidi, composti da particelle più fini, manifestano un’efficacia superiore dei formulati polverulenti, che richiedono dosaggi di impiego superiori.

Formulazioni commerciali. Lo zolfo è presente in commercio in diverse formulazioni raggruppabili in due distinti gruppi, a seconda siano utilizzabili per trattamenti polverulenti o liquidi.

Per i trattamenti polverulenti si possono impiegare gli zolfi sublimati, ottenuti dalla distillazione del minerale grezzo e formati da particelle di 5-14 micron, zolfi ventilati, ottenuti per macinazione del minerale grezzo e conteneti particelle di15-150 micron.

Per i trattamenti liquidi si impiegano gli zolfi baganabili , preparati dagli zolfi ventilati con aggiunta di apposite sostanze; zolfi micronizzati, ottenuti per macinazione di zolfi ventilati e sublimati; zolfi colloidali, prodotti con processi chimici, con zolfo allo stadio di colloide, quindi più fini dei micronizzati. Sono anche disponibili formullazioni liquide , flowable e sospensione concentrata, sempre per trattamenti liquidi

Modalità d’azione. Lo zolfo possiede una buona attività preventiva ed anche eradicante (soprattutto nelle formulazioni in polvere). In virtù della discreta capacità di penetrazione all’inerno della vegetazione e di una buona efficacia di azione, nelle fasi di maggiore pressione della malattia e/o in presenza di infezioni attive, sono consigliabili applicazioni di zolfo in polvere (25-35 kg). Gli zolfi bagnabili esercitano un’azione prevalentemente di tipo preventivo ed hanno una minor persistenza d’azione rispetto a quelli in polvere (5-7 giorni a seconda delle condizioni ambientali). A dosaggi elevati (sempre facendo riferimento a quanto riportato in etichetta) possono comunque rallentare o bloccare lo sviluppo del micelio.

Effetti dello zolfo su organismi non bersaglio. La tossicità nei confronti dei mammiferi è molto bassa; è poco tossico per i pesci e i rischi per flora e fauna selvatici sono lievi. Nei formulat commerciali deve essere riportata la dichiarazione di assenza di selenio, un metalloide chimicamente affine allo zolfo, tossico per l’uomo e gli animali. Realativamente all’entomofauna e ad altri invertebrati, lo zolfo è poco tossico per le api, mentre può risultare tossico per alcuni insetti utili, quali gli imenotteri parassiti del genere Trichogramma e manifestare una moderata tossicità per gli acari Fitoseidi Amblyseius potentillae e A. andersoni e per alcuni Miridi e Antocorid

Compatibilità con altri prodotti fitosanitari. I formulati commercili a base di zolfo possno creare problemi di compatibilità e/o fitotossicità quando vengano miscelati con alcuni prodotti fitosanitari. E’ consigliabile distanziare di almeno 21 giorni i trattamenti a base di zolfo da quelli a base di oli minerali e captano per prevenire rischi di fitotossicità. Sconsigliabile anche la miscela con antiparassitari a reazione alcalina.

Come sopra riportato, in condizioni di temperatura elevata (>30°C) tutti gli zolfi possono risultare fitotossici, in particolare se impiegati a dosi alte e a formulati molto fini. Durante l’estate è quindi preferibile trattare nelle ore più fresche della giornata.

La fitotossicità è anche legata alla sensebilità varietale. Nelle etichette sovente vengono specificate le varietà di melo, pero, vite ecc. suscettibili rischi di fitotossici. Occorre porre attenzione anche all’impiego dello zolfo su cucurbitacee.

ATTENZIONE: attenersi sempre scrupolosamente alle indicazioni riportate sulle etichette dei prodotti

Frumento; lo stadio “spiga 1 cm”

La fase di accestimento, iniziata tipicamente allo stadio di “3° foglia”, termina con il “viraggio”. Questo segna il passaggio dalla fase vegetativa a quella riproduttiva.  In seguito alle modifiche anatomiche a carico degli apici vegetativi, iniziano a svilupparsi gli abbozzi delle future spighe e dei futuri fiori. Il passaggio dalla fase vegetativa a quella riproduttiva è condizionato dalle basse temperature (vernalizzazione) e dalla lunghezza del periodo di luce della giornata (fotoperiodo).  Nel frumento frequentemente (varietà non alternative), ma non necessariamente (varietà alternative), si  passa alla fase di viraggio solo dopo che la pianta ha subito un certo numero di ore a basse temperature (in genere comprese tra 0 e 6°C). Al viraggio sezionando longitudinalmente la piantina è chiaramente visibile al microscopio l’apice con abbozzi di spighette in forma di doppio anello (double ring).

In campo questo passaggio si rende visibile a inizio allungamento degli steli (inizio levata), quando sezionando il fusticino longitudinalmente con una lama affilata è chiaramente riconoscibile l’abbozzo della spiga.  La distanza tra l’apice della spiga e il piano di accestimento (la base della pianta) è di circa 1 cm, da cui il nome di stadiospiga a 1 cm”.  In questa fase il primo internodo, che inizia ad allungarsi, è minore di 1 cm.

Si ricorda che il piano di accestimento è un ingrossamento che si forma ad una profondità di 2-3 cm alla fase di 3-4 foglie (inizio accestimento). Da questa struttura prenderanno origine le radici avventizie e culmi di accestimento.

Nella pratica possiamo considerare che la coltura è nello stadio di “spiga 1 cm” se almeno la metà delle piante dell’appezzamento hanno raggiunto questo stadio. Per verificare ciò può essere sufficiente effettuare il campionamento su 20 piante rappresentative dell’appezzamento. Con il raggiungimento dello stadio “spiga 1 cm” inizia lo stadio di “levata”.

Anno internazionale della salute delle piante 2020

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha proclamato il 2020

Anno internazionale della salute delle piante” (IYPH)

Un tema su cui tutti (non solo agricoltori e addetti al settore) dovremo seriamente riflettere (e agire!)

http://www.fao.org/plant-health-2020/en/

Proteggere la salute delle piante, secondo la FAO, significa contribuire a lottare contro la povertà e la fame favorendo lo sviluppo economico, difendere l’ambiente e la biodiversità. Ci viene anche ricordato come i pericoli per il mondo verde non provengano solo da parassiti e insetti, ma anche dal cambiamento climatico.

Ticchiolatura della rosa

(Diplocarpon rosae )

La Ticchiolatura della rosa, causata dal fungo Diplocarpon rosae, è una malattia fungina piuttosto diffusa su questa specie.

Sintomi. Sulla pagina superiore delle foglie compaiono macchie di varie dimensioni, di colore da bruno-violetto a nero, con margini a raggiera. Le foglie colpite tendono a ingiallire e successivamente a cadere. In caso di varietà sensibili e di condizioni ambientali particolarmene favorevoli al patogeno, si può avere una forte defogliazione delle piante e cattiva lignificazione dei rami.

La precoce defogliazione induce l’emissione di nuove foglie, con conseguente indebolimento della pianta. Anche i rami possono essere colpiti dal fungo.

I sintomi possonoo essere evidenti già dalla primavera, soprattutto se la stagione decorre umida. Frequentemente la malattia ha una recrudescenza in autunno, con il ritorno di condizioni di temperatura e umidità più favorevoli al patogeno. In questo caso la Ticchiltura risulta meno dannosa, essendo ormai prossimo il riposo vegetativo delle piante.

Diplocarpon rosae appartenente agli Ascomiceti, funghi che, attraverso un processo di riproduzione sessuale, producono strutture a forma di sacco dette aschi ( dal greco = “sacco”, “otre”), contenenti spore dette ascospore.

Questo fungo, come molti altri, è anche capace di produrre spore senza l’intervetto della riproduzione sessuale (in questo caso più propriamente si parla di conidi).

Ciclo biologico del patogeno. Sulle foglie della rosa Diplocarpon può produrre due differenti tipi di fruttificazioni: gli acervuli e i picnidi. Gli acervuli sono strutture conteneti conidi di origine agamica (riproduzione asessuata), prodotti più volte all’anno nel corso delle diverse generazioni del fungo. I picnidi compaiono nella tarda estate e continuano a differenziarsi anche nel corso dell’inverno su i rametti e sulle foglie marcescenti cadute al suolo. In quest’ultima sede possono comparire, talvolta, gli apoteci, contenenti aschi e ascospore. Quest’ultime saranno rilasciate a primavera, avviando nuovi cicli infettivi assieme ai conidi prodotti nei picnidi. I conidi sono molto più efficiente nel diffondere le infezioni, mente la capacità infettante delle ascospore sarebbe molto più limitata.

Presupposti ambientali favorevoli alla malattia. I conidi per poter germinare e infettare le foglie devono rimanere bagnati, per cui non è sufficiente la semplice umidità atmosferica. Richiedono invece una vera e propria bagnatura fogliare (piogge o rugiare). Altro elemento importante è la temperature, che non deve essere eccessivamente alta (20-25°C).

Prevenzione e lotta alla Ticchilatura. Come prima cosa è necessario mettere in atto una serie di accorgimenti e tecniche colturali capaci di ostacolare lo sviluppo della malattia. La sensibilità alla Ticchiolatura può variare notevolmente nelle diverse varietà di rosa. Negli ambienti dove la malattia manifesti una forte diffusione, è bene informarsi sulla sensibilità a Diplocarpon delle varietà che si vuole coltivare. L’asportazione e la distruzione delle foglie infette cadute al suolo, al cui interno sverna il fungo, contribuiscono a contenere il poteziale d’inoculo. Si tenga presente che il fungo può sopravvirere anche sulle foglie infette che rimangono attaccate alla pianta. Le irrigazioni sopra chioma per aspersione (a pioggia) sono sicuramente da sconsigliare perchè, come si è detto sopra, la bagnatura fogliare favorirà l’avvio di nuove infezioni. L’intervento diretto contro il fungo, attraverso l’uso di fitofarmaci (fungicidi), deve essere attentamente valutato e impostato secondo criteri che tutelino la salute dell’operatore e limitino le ricadute negative ambientali. Per tale ragione si consiglia sempre di consultare tecnici qualificati. Qualora si ricorra all’impiego di fungicid si tenga presente che solitamente i migliori risultati si ottengono con un precoce avvio della difesa fungicida (comparsa dei primi sintomi della malattia in primavera). Per le ragioni sopra menzionate, solitamente non sono giustificabili trattamenti fungicii a fine stagione.

(le foto dell’articolo sono dell’autore)

Brolio dei Braghèti, il giardino dei meli antichi

Questa estate ho avuto il piacere di conoscere Pellizzano (TN), un piccolo paese della Val di Sole.

Questa località custodisce un piccolo tesoro all’interno del parco Sama, il Brolio dei Braghètti, il girdino dei meli antichi.

Il frutteo, fondato nel 1901 da Scipione Anbrosi di Pellizano, sorge su un terrenodi proprietà della famiglia Ambrosi fin dal 1817, anno in cui Francesco acquistò un prato della superficie di 992 mq. Successive acquisizioni ampliarono la proprietà, arrivando ai circa 9.000 mq attuali.

Nel 1901 vennero impiantati 21 meli appartenenti alle varietà Rosso Mantovano, Limonzio, Canada Dorato, Pearmein d’Or, Napoleon , Belfiore Giallo, Rosa Mantovana , Rosa di Caldaro, Canada Bianco e Pomella di Pellizzano. Negli anni Sessanta del secolo scorso vennero aggiunte due piante di Golden Delicious.

Nel tempo alcune piante sono state tagliate e altre sono state inserite.

Nel 1996 il Comune di Pellizzano ha acquistao il Brolio dei Braghètti per ricavandone il parco pubblico e tutelando questa importante arca della biodiversità.

Nel giardino sono custoditi dei veri e propri “Patriarchi”, piante di dimensioni ed età straordinare.

Altre informazioni si possono trovare al linnk

http://www.pellizzano.com/parco-sama-il-verde-nel-verde/

La Popillia japonica: nuova minaccia per l’agricoltura.

La Popillia japonica (Coleoptera rutelidae) è un coleottero scarabeide  originario del Giappone,  attualmente  presente in diversi Paesi. 

Nel 2014 è stata segnalata in Italia  sul territorio lombardo (Area centro-settentrionale della valle del Ticino).

  Adulto P. japonica

Fonte: Wikipedia -USDA Animal and Plant Health Inspection Service, 'Managing the Japanese Beetle: A Homeowner's Handbook' 

Nel nostro ambiente compie una sola generazione all’anno. Gli adulti compaiono all’inizio di giugno e si nutrono a spese di diverse specie vegetali (oltre 300, tra le quali fruttiferi, vite e numerose ornamentali).

Successivamente all’accoppiamento le femmine ovodepongono nel cotico erboso di prati di graminacee, in gallerie profonde 5-10 cm. Le larve si nutrono a spese degli apparati radicali. Quado la temperatura raggiunge i 10°C interrompono l’attività per svernare.  Le larve riprendono l’attività tofica in primavera, per poi trasformarsi in pupe. Gli adulti emergono da metà maggio (zone calde) a giugno-luglio (zone più fredde).

Larva P. Japonica

Fonte: Wikipedia - USDA Animal and Plant Health Inspection Service, 'Managing the Japanese Beetle: A Homeowner's Handbook' 

Per la sua potenziale dannosità è considerata dalla legislazione fitosanitaria  un organismo nocivo da quarantena riportato nella Direttiva 2000/29 CE e nelle liste di allerta del European and Mediterranean Plant Protection Organization (EPPO).

Con il Decreto Ministeriale 17 marzo 2016 si sono definite le misure d’emergenza per contenere la diffusione di Popilia Japonica sul territorio nazionale. Sono state disposte anche indagini per monitorarne la diffusione sul territorio nazionale.

 

Per approfonimenti sulla biologia dell’insetto, ciclo biologico e altri aspetti è possibile consultare il sito dell’ERSA- Regione Lombardia:

https://www.ersaf.lombardia.it/it/servizio-fitosanitario/organismi-nocivi/insetti-1544624942/pagina-popillia

Per la buna riuscita del contenmento della diffusione dell’insetto è quanto mai necessaria la collaborazione di tutti. Qualora si rilevasse la presenza dell’nsetto è necessario informare tempestivamente il Servizio Fitosanitario della Regione.

Fonte: www.ersaf.lombardia.it 

 

Lotta alla cicalina della Flavescenza dorata – anno 2019

Articolo in Evidenza

Anche nel corso del 2019 è fondamentale attenersi alle indicazioni fornite dai tecnici per il controllo dello Scafoideo (Scaphoideus titanus), la cicalina vettore del fitoplasma della Flavescenza dorata su vite.

Per la Regione Emilia – Romagna si allegano le indicazioni fornite dal Servizio Fitosanitario della Regione nel link seguente:

https://www.fitosanitario.mo.it/files/1015/5921/0108/Lotta_obbligatoria_scafoideo_2019.pdf

Per le altre Regioni si rinvia alle indicazioni delle autorità fitosanitarie locali.

La fioritura della vite

Nella vite la fioritura avviene in fase di massima crescita dei germogli. Da prima schiudono i fiori nella parte centrale del grappolo, seguiti da quelli della base, delle estremità e delle ali. La sua durata complessiva è di 9-21 giorni.

La corolla è costituita da petali saldati in cima a formare una sorta di “cuffia”, detta caliptra, che  cade al momento della fioritura.

Il fiore della vite europea (Vitis vinifera sub sp. sativa) è ermafrodita (presenta organi maschili e femminili), ma in alcuni vitigni l’androceo (parte maschile) o il gineceo (parte femminile) possono essere atrofizzati. Oltre a fiori ermafroditi, possono essere   presenti fiori femminili non fecondi (Picolit, Lambrusco di Sorbara, Moscato rosa ecc.) e fiori con gineceo mancante o atrofizzato, come accade tipicamente nelle viti americane da portainnesto.

L’impollinazione è prevalentemente incrociata, dovuta all’azione del vento. Scarsa è invece l’importanza dell’autoimpollinazione. La maggior parte dei vitigni risultano comunque autofertili.

In alcune uve (dette apirene) la fecondazione avviene solo parzialmente, con formazione di abbozzi di semi (es. Sultanina). In altre non avviene del tutto. Il risulatato è comunque la formazione di acini privi di semi.

A differenza della vite coltivata, la vite selvatica (Vitis vinifera sub sp. sylvestris) è dioica, il che significa che la pianta produce o tutti fiori femminili (pistillati) o tutti fiori maschili (staminati). Nella vite selvatica sono però presenti, anche se in piccola percentuale (2-3%), individui muniti di fiori ermafroditi, come nella sottospecie sativa. Molto probabilmente è da questa tipologia di piante che pese forma la vite coltivata.

Le anomalie che si possono riscontrare a carico del grappolo o della fioritura sono:

  • filatura: i grappoli si trasformano in viticci. Questo inconveniente solitamente si verifica in vigneti molto vigorosi (portainnesto molto vigoroso o eccesso di azoto). La filatura è pure essere favorita da abbassamenti termici, clorosi ferrica e asfissia radicale.
  • colatura, ovvero disseccamento e caduta dei fiori. Entro certi limiti  è da ritenersi normale, poiché l’allegagione varia tra il 20-50% dei fiori. Al disotto di tale range la colatura è da ritenersi un fatto patologico. Le cause possono essere di natura genetiche (anomalia degli organi fiorali), fisiologiche (squilibri nutrizionali), patologiche (virosi o attacchi di parassiti), condizioni climatiche avverse, oppure essere imputabili a errate tecniche colturali ( potature squilibrate).
  • acinellatura: consiste nella formazione di acini che a maturità restano di piccole dimensioni, inframmezzati ad acini di dimensioni normali. Possono rimanere verdi (acinellatura verde) oppure maturare e risultare più dolci del normale (acinellatura dolce). Le cause di questa manifestazione possono essere diverse:  anomalie fiorali, condizioni climatiche avverse, carenze nutrizionali (boro, in modo particolare) o attacchi parassitari (es. virosi).

Eriofide vescicoloso del pero (Eriophyes pyri)

La famiglia degli Eriophydae  comprende acari di piccolissime dimensioni (0.1 – 0.3 mm), di aspetto allungato-conico o vermiforme, muniti di due sole paia di zampe. A secondo della specie durante il ciclo annuale si possono avere due tipi di femmine: le protogine, che compaiono nel periodo primaverile-estivo, e le deutogine, che si differenziano nel periodo autunnale e sono destinate allo svernamento.

Per lo più gli Eriofidi vivono su piante arboree e superano l’inverno all’interno delle gemme.

I danni che possono arrecare sono essenzialmente di due tipi:

  • Alterazioni cromatiche sulle foglie e talvolta sui frutti. Quest’ultimo caso è tipico, ad esempio,  degli Eriofidi che causano la “ruggionosità” sui frutti del pero (Epitrimerus pyri);
  • Deformazioni specifiche che possono essere:

– a carico delle foglie (galle), come nel caso dell’Erinosi della vite (Eriophyes vitis – vedi post precedente) o dell’Eriofide vescicoloso del pero (Eriophyes pyri);

-a carico delle gemme o germogli, come nel caso dell’Eriofide delle gemme del nocciolo (Phytoptus avellanae).

In questo post ci si soffermerà sull’Eriofide vescicoloso del pero. Questo acaro è meno conosciuto dell’Eriofide ruggionoso (Epitrimerus pyri) e solitamente viene ritenuto meno dannoso.

L’adulto sverna all’interno delle gemme, tra le perule, riprendendo l’attività alla ripresa vegetativa. Le sue punture provocano piccole bollosità sulle foglie di forma allungata, visibili soprattutto sulla pagina superiore, in un primo momento di colore verde chiaro per poi assumere una colorazione rossastra e imbrunire per il disseccamento dei tessuti. In corrispondenza di queste bollosità nella pagina inferiore si ha  uno sviluppo ipertofico di peli fra i quali si annidano gli Eriofidi. Le foglie assumono una consistenza rigida e possono lacerasi.

In caso di forti infestazioni precoci possono essere attaccati anche i fiori e i frutticini, con possibilità di cascola.

In un anno l’eriofide vescicoloso può compiere 2-4 generazioni, a seconda dell’andamento climatico.

In caso di forti attacchi nella precedente annata è possibile utilizzare olio bianco in formulazione con zolfo, impiegandolo non oltre la fase di “gemma gonfia”.  Durante la fase vegetativa, se occorre intervenire, si possono utilizzare formulati insetticidi-acaricidi a base di Abamectina o Fenpyroximate. Come per altri Eriofidi è possibile impiegare anche lo zolfo, adottando le dovute cautele (Rischio di fitotossicità).

[Per la lotta all’Eriofide si è fatto riferimento a quanto riportato nei Disciplinari di produzione integrata della Regione Emilia-Romagna – anno 2019]

L’Erinosi della vite

Nelle foto foglie di vite affette da Erinosi. Largamente diffuso in tutte le aree viticole, l’acaro eriofide Colomerus (= Eriophyes) vitis provoca la formazione di queste caratteristiche bollosità sulle foglie in via di sviluppo. In corrispondenza di queste bollosità nella pagina inferiore si notano delle masse feltrose causate da uno sviluppo ipertrofico dei peli fogliari. Iinizialmente bianche, diventano poi rossastre in seguito al disseccamento dei peli.

I sintomi possono manifestarsi già dalla ripresa vegetativa, a carico delle foglie basali dei giovani tralci. In seguito – fine maggio – gli acari iniziano a migrare verso gli apici dei tralci, alla ricerca di foglie giovani.  In estate   è quindi possibile ritrovare le caratteristiche bollosità negli   apici dei  germogli.  Con il finire dell’estate si ha una migrazione in senso opposto, verso la base del tralcio, per raggiungere i luoghi di svernamento (anfratti della corteccia e perule delle gemme).

Gli attacchi ai grappoli, piuttosto rari, possono causare aborti fiorali

Solitamente le infestazioni non assumono mai una  una rilevanza tale da richiedere specifici interventi, essendol’acaro controllato dai trattamenti con zolfo realizzati nei confronti dell’Oidio.  Negli ultimi anni si è  tuttavia rilevato un aumento di attacchi nel periodo estivo, probabilmente dovuto ad un incremento delle popolazioni resistenti allo zolfo o alla sostituzione di questo prodotto con antioidici di sintesi.

Il controllo naturale di Colomerus vitis è predato da Acari Fitoseidi e Stigmeidi, quest’ultimi attivi soprattutto a fine inverno e primavera. Nel periodo estivo  possono svolgere una funzione di contenimento Antocoridi e Tisanotteri

Gestire la resistenza ai fitofarmaci

In questo articolo che ho pubblicato su rivistadiagraria.org si parla di come gestire la resistenza ai fitofarmaci.

Buona lettura!

Il quaderno di campagna

Il decreto legislativo n. 150 del 14 agosto 2012 prevede la compilazione del “registro dei trattamenti”noto anche come “quaderno di campagna”.
 
 
La tenuta del Registro dei trattamenti è un obbligo per tutti gli agricoltori che vendono o cedono le loro produzioni a terzi, mentre ne sono esentati  coloro  che utilizzano i prodotti fitosanitari in orti o giardini familiari il cui prodotto è destinato all’autoconsumo.
 
 

Secondo l’art.16 del D.Lg. n.150/2012 :

“per registro dei trattamenti si intende un modulo aziendale che riporti cronologicamente l’elenco dei trattamenti eseguiti sulle diverse colture, oppure, in alternativa, una serie di moduli distinti, relativi ciascuno ad una singola coltura
agraria.”
 
 
Su di esso vanno annotati tutti i trattamenti fitosanitari entro la raccolta e comunque non più tardi di 30 giorni dalla esecuzione del trattamento stesso.
 
 
Il Registro va conservato per almeno i 3 anni successivi a quello cui si riferiscono i trattamenti.
 
Sempre secondo l’art.16 del D.Lg. n.150/2012 :
Il registro dei trattamenti riporta:
a) i dati anagrafici relativi all’azienda;
b) la denominazione della coltura trattata e la relativa estensione espressa in ettari;
c) la data del trattamento, il prodotto e la relativaquantità impiegata, espressa in  chilogrammi o litri, nonché l’avversità che ha reso necessario il trattamento.
 
Il Quaderno di campagna deve essere compilanto anche quando:
– I trattamenti vengono eseguiti per la difesa di  derrate immagazzinate
– Per trattamenti in ambito extra-agricolo (es. verde pubblico).
 
“può essere compilato e sottoscritto anche da persona diversa, qualora l’utilizzatore dei prodotti fitosanitari non coincida con il titolare dell’azienda e nemmeno con l’acquirente dei prodotti stessi. In questo caso dovrà essere presente in azienda, unitamente al registro dei trattamenti, relativa delega scritta da parte del titolare.”
 
Qualora i trattamenti siano effettuati dal contoterzista:
il registro dei trattamenti deve essere compilato dal titolare dell’azienda allegando l’apposito modulo rilasciato dal contoterzista per ogni singolo trattamento. In alternativa il contoterzista potrà annotare i singoli trattamenti direttamente sul registro dell’azienda controfirmando ogni intervento  fitosanitario effettuato.”
 
Nel caso di cooperative di produttori che acquistano prodotti fitosanitari con i quali effettuano trattamenti per conto dei loro soci il registro dei trattamenti può essere conservato presso la sede sociale dell’associazione e deve essere compilato e sottoscritto dal legale rappresentante previa delega rilasciatagli dai soci.”
 
Le sanzioni che derivano dalla mancata tenuta del Registro dei trattamenti sono riportate nell’art.24 comma 13 del D.Lg. n.150/2012:
 
” Salvo che il fatto costituisca reato, l’acquirentee l’utilizzatore che non adempia agli obblighi di tenuta del registro dei trattamenti stabilito dall’articolo 16,comma 3, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma da 500 euro a 1.500 euro. In caso di reiterazione della violazione è disposta la sospensione da uno a sei mesi o la revocadell’autorizzazione.”

Sei

La canapa nel bolognese

Specie originaria dell’Asia Centrale, la  canapa fu utilizzata come pianta tessile forse fin dal Neolitico. In Italia, sebbene la sua  diffusione sia  molto antica, raggiunse la massima importanza solo alla fine dell’Ottocento.

La coltivazione era concentrata soprattutto in Emilia – Romagna, dove le province di Bologna e Ferrara fornivano oltre il 44% della produzione nazionale di fibra. Solo le sterminate pianure della Russia  potevano fornire una produzione di fibra quantitativamente superiore a quella italiana, consentendole di affermandosi come primo produttore mondiale. La  fibra di canapa non serviva solo per tessere tessuti destinati all’abbigliamento o alla biancheria. Per molti secoli  la canapa fornirà la materia prima per vele e cordami alle marinerie di tutto il mondo. La produzione  emiliano – romagnola  verrà in buona parte avviata ai mercati inglesi per la produzione di velame. Anche le vele delle caravelle di Colombo erano fatte di canapa.

La coltivazione di questa specie richiedeva   una elevata professionalità,oltre che un notevole impegno lavorativo. Una volta tagliate, le piante erano lasciate essiccare in campo, quindi  gli steli venivano  sbattuti a terra per liberarli dalle foglie secche, e riuniti in fasci da avviare alla macerazione. Questa avveniva all’interno di appositi bacini, i maceri.

Nei maceri i fasci erano riuniti a formare  zattere (i “postoni”), costituite da più strati (dette”mani”) di fasci. I postoni erano poi caricati con pesanti sassi per provocarne l’affondamento. In queste condizioni avveniva la macerazione. E’ questa l’immagine più caratteristica della lavorazione della canapa, ma  allo stesso tempo è anche la  fase fondamentale per  ottenere la  fibra.

Affinchè questa possa separarsi  dalla parte legnosa del fusto (il canapuolo) occorre che alcuni batteri specifici possano attaccare e digerire le pectine, sostanze che cementano le fibre alla parte legnosa, favorendone  il distacco.  Per il completamento di questo processo microbico occorreva all’incirca una settimana.

Completata la macerazione si rimuovevano  i sassi liberando i fasci, che dovevano essere lavati,  per eliminare la fanghiglia, e fatti asciugare. Queste operazioni costringevano gli agricoltori a lavorare, spesso per diversi giorni, immersi nell’acqua  resa maleodorante dalla macerazione.  Una volta  essiccati gli steli  si poteva procedere alla  rottura, tramite scavezzatura, della parte legnosa per liberare la parte fibrosa ( il tiglio). Con la  pettinatura  del tiglio si allontanavano  le ultime parti legnose.

L’eredità colturale della canapa è ancora presente nel nostro linguaggio. A Bologna esiste una via detta “Bassa dei sassi”, poiché in essa si teneva un vero e proprio commercio dei sassi utilizzati nei maceri. Ancora oggi nel bolognese l’appezzamento di terreno viene chiamato “canver” ossia “canepaio”,  a richiamare una superficie destinata alla coltivazione della canapa.  Nelle serate invernali diverse famiglie contadine si riunivano nelle stalle ( il rito del “treb”) per trascorrere assieme la serata. Per ragazzi e ragazze era una occasione per  incontrasi e socializzare. Poiché al “treb” spesso le donne filavano la canapa, l’espressione “fare il filo” è passato a indicare il corteggiamento: proprio come il paziente lavoro con cui da una mannella di canapa si ricava un filo . Analogamente, con  il termine “filarino” non si indicava solo lo strumento per la filatura della canapa, ma anche il corteggiatore , cioè chi faceva “il filo” alla ragazza.

Con l’inizio del Novecento si avvierà il lento declino della canapicoltura. Nuove fibre tessili, prima il cotone poi più tardi le fibre sintetiche, insidiano la canapa e l’epoca della marina velica è ormai tramontata. Finito anche il sogno autarchico del Ventennio e la speranza di rilanciare la canapa, la crisi della canapicoltura si accentuerà anche per le difficoltà di meccanizzare integralmente il ciclo colturale, fino ad arrivare alla completa scomparsa di questa pianta dalle nostre campagne.

Solo da pochi anni si è riscoperto questa pianta, riproponendone la coltivazione. Ma questa è un’altra storia.

Angelo Sarti

La piantata, l’antico matrimonio tra la vite e l’albero

 

 

Attraversando le nostre campagne si può osservare, sia pure con sempre minor frequenza, come la monotona successione degli appezzamenti coltivati sia interrotta da filari di alberi, addossati ai quali viene coltivata la vite. I campi non sono separati longitudinalmente tra loro da semplici fossi, ma da una striscia di terreno di larghezza variabile – generalmente dai 4 ai 6 metri –   su cui sono vengono coltivati alberi che fungono da sostegno a piante di vite. Tra un albero e il successivo sono ordinatamente tesi  fili metallici su cui vengono distesi i tralci delle viti a formare delle vere e proprie pergole. Questa consociazione albero – vite costituisce la piantata, una  struttura vegetale caratteristica della pianura bolognese, e non solo.  In molti paesaggi agrari italiani è possibile ritrovare la consociazione albero – vite a formare quelle che genericamente vengono chiamate alberate. Naturalmente, a secondo dei luoghi queste assumono forme e nomi diversi. Ancora oggi, utilizzando un vecchio termine contadino, si parla di “vite maritata” a indicare l’uso di abbinare alla vite l’albero quale tutore. Questa espressione probabilmente nasce dalla antica simbologia che vede peculiarmente nella vite un elemento femminile, mentre l’albero simboleggia il maschile.

Alberata nella campagna bolognese (Argelato)
Foto Angelo Sarti

 

La piantata è presente  nelle nostre campagne fin dal XIV secolo, e assume quelle caratteristiche che ritroviamo ancora oggi a partire dal  1500. Ma l’uso di maritare l’albero alla vite è piuttosto antico e trova la sua origine nel mondo rurale etrusco. Gli agronomi latini – Catone, Columella, Plinio e altri –  indicano come arbustum gallicum la  pratica di coltivare la vite utilizzando quali sostegni o tutori  gli alberi. Il termine arbustum gallicum non farebbe diretto riferimento al popolo dei Galli, ma alla Gallia Cisalpina. Ciò che lascerebbero intendere gli autori latini è che  questa  consuetudine sarebbe stata ideata dalle antiche popolazioni  della Valle Padana. Da esse  gli Etruschi l’avrebbero semplicemente mutuata, diffondendola in molte altre regioni.

Gli alberi principalmente utilizzati nelle piantate erano l’Olmo e l’Acero campestre, quest’ultimo chiamato dai contadini Opi. Il legno  di queste piante forniva materiale da ardere o da utilizzare nella costruzione degli attrezzi agricoli (Olmo soprattutto). Le foglie dell’Olmo  potevano essere  utilizzate come foraggio fresco per il bestiame.

Ma la piantata costituiva anche un ambiente naturale  di particolare interesse, potendo ospitare diverse specie di uccelli: averle, rapaci notturni (civetta, assiolo, allocco e gufo), merli, cinciallegre, usignoli, fringuelli,  ecc. Per contenerne lo sviluppo vegetativo gli alberi erano sottoposti a drastiche potature, effettuando tagli a carico delle branche principali (capitozzature). In corrispondenza di questi grossi tagli , a seguito di attacchi fungini, il legno si “cariava”, ossia marciva, formando ampie cavità. Queste offrivano un riparo per la nidificazione di numerose specie di uccelli, tra cui codirosso, cinciallegra, upupa, pigliamosche ecc.

A partire dalla seconda metà del secolo scorso la superficie a piantata ha iniziato progressivamente a contrarsi per diverse ragioni; la specializzazione dell’agricoltura, gli elevati costi di gestione, nuove esigenze legate a una spinta meccanizzazione delle operazioni colturali. Tutto ciò ha fatto si che molte piantate siano state abbattute o relegate al ruolo di  “coltura relitto”. La scomparsa non significa semplicemente la perdita di un pezzo di memoria storica, ma anche il venir meno di un importante habitat per le specie di uccelli che vi vivevano. Alcune di queste sono riuscite, non senza difficoltà, ad adattarsi a vivere nei frutteti, ma altre sono state pesantemente penalizzate dalla scomparsa di questo importante sito di nidificazione. Molte di queste specie, essendo insettivore, contribuivano al contenimento delle popolazioni di insetti nocivi all’attività agricola.  In alcuni ambienti gli agricoltori hanno  introdotto nei propri frutteti dei nidi artificiali favorendo il ritorno degli uccelli insettivori. Una antica alleanza spezzata è stata così ricomposta.

Oggi disponiamo di strumenti legislativi in grado di proteggere, vincolandoli, alberi monumentali o di interesse scientifico, anche se appartenenti a privati. Sarebbe auspicabile che tali provvedimenti potessero essere estesi anche alle piantate. Ne vade la salvezza di una importante parte del nostro comune  passato e futuro.

Angelo Sarti

Grano saraceno: prove di coltivazione in Emilia-Romagna

Il grano saraceno (Fagopyrum esculentum Moench) è una pianta erbacea annuale appartenente  alla famiglia delle Poligonacee con strette analogie con i cereali, tanto che comunemente viene considerato un pseudocereale.

Campo sperimentale di grano saraceno

A livello mondiale Cina e Russia sono i maggiori produttori di grano saraceno. In Italia la coltivazione,  un tempo  diffusa nell’arco alpino (Valtellina e Alto Adige in particolare) e nell’Appennino Settentrionale e Centrale, a partire dagli anni ’50  ha subito una progressiva contrazione,  concentrandosi in Valtellina e Alto Adige. Paradossalmente è invece in crescita l’interesse verso questa coltura.

Proprietà nutrizionali

Le ragioni del rinato interesse verso questa coltura vanno ricercate principalmente nel recupero di piatti locali tradizionali (es. pizzoccheri, polenta taragna) e nelle eccezionali caratteristiche nutrizionali e funzionali delle sue farine, superiori per alcuni aspetti  a quelle dello stesso frumento (elevato valore biologico delle proteine, basso indice glicemico, assenza di glutine, elevato contenuto in lisina, ecc.).

Nella granella sono inoltre  presenti numerosi componenti bioattivi, tra i quali spicca la rutina o rutoside, un flavonoide glicosilato dotato di numerose proprietà salutistiche (antiossidante, antinfiammatoria, ipotensiva, antilipoperossidante, ecc.). Tuttavia i prodotti alimentari derivati dal grano saraceno possiedono un contenuto in rutina basso o trascurabile per cui non possono essere considerati alimenti funzionali (Functional Food). Il flavonoide viene infatti in gran parte perduto durante i processi di preparazione dell’alimento. Attualmente sono in corso ricerche indirizzate  a individuare  processi di preparazione dell’alimento capaci di contenere queste perdite.

Il contenuto in rutina nella granella varia in funzione delle varietà (indicativamente oscilla entro valori di 8 – 24 mg/100g di granella t.q)   e degli ambienti di coltivazione ( è maggiore nelle produzioni di montagna).  Una seconda specie di grano saraceno, il  Fagopyrum tataricum, possiede un contenuto in rutina fino a 200 volte superiore a Fagopyrum esculentum . ed è  quindi di maggiore interesse ai fini della preparazione di Functional Food.

Fiori di grano saraceno

Attività sperimentale

Nel biennio 2014-2015 in qualità di tecnico sperimentatore presso  ASTRA Innovazione e Sviluppo – unità operativa  Mario Neri di Imola (BO) ho seguito un progetto volto a valutare il comportamento agronomico di varietà di grano saraceno nell’areale di pianura emiliano-romagnolo. L’attività è stata condotta in collaborazione con la Cooperativa Agricola Cesenate (CAC) di Martorano di Cesena (FC)  ed ENEA – Centro Ricerche Trisaia (MT)

Il progetto era coordinato dal Centro ricerche produzioni vegetali (CRPV) di Cesena (FC) con il finanziato dalla Regione Emilia-Romagna (Progetto Cereal.Pro.Ve.).

Nel 2015 sono state testate 6 varietà (Botan, Darja, Koban, Koto e Manor e Lileja), adottando un disegno sperimentale a blocchi randomizzati con 3 repliche, seminando in 3 differenti epoche.

Nel 2015 sono entrate in prova solo le varietà maggiormente promettenti sulla base dei risultati del 2014 (Koban, Koto, Manor) assieme a Lileja (varietà testimone)

 

Emergenze fitosanitarie: come è cambiata e come potrebbe ancora evolvere la difesa delle colture

Dal Punteruolo rosso delle palme alla Xilella dell’olivo, anche la stampa da alcuni anni porta all’attenzione del grande pubblico alcune delle  più diffuse emergenze fitosanitarie.

Oltre che dai comuni patogeni,  minacce alle colture possono derivare anche da insetti e patogeni locali favoriti dalle mutate condizioni climatiche  o da nuove tecniche agronomiche.


Nell’immagine: Fillossera della vite (Viteus vitifoliae ).  Originaria del Nord America, questo insetto parassita della vite fu segnalato in Francia nel 1863. In pochi anni  si diffuse rapidamente nel Vecchio Continente provocando ingenti danni alla viticoltura e all’enologia. Grazie a una intuizione del Prof. Planchoin di Montpellier a partire dal 1880 si iniziò a innestare le viti europee su viti di origine americana, le cui radici sono capaci di resistere all’attacco dell’insetto. Fu così possibile arrestarne la devastante diffusione dell’insetto.  L’arrivo in Europa della Fillossera è molto probabilmente da imputare all’intoduzione in Europa dal Nord America di barbatelle infestate.

Immagine tratta da: L. Zerbini ( 1937) La fillossera e la ricostruzione viticola nel bolognese.


Parliamo di emergenza fitosanitaria quando un patogeno – includendo in questo termine funghi, batteri, virus, insetti, piante infestanti e altri organismi dannosi per le piante – si sviluppa in forma epidemica causando gravi danni a piante coltivate e ornamentali. Queste emergenze possono interessare un singolo Paese o arrivare a coinvolgere un continente.

Bisogna innanzitutto specificare che le emergenze fitosanitarie non sono una peculiarità dei nostri tempi, anche se solo in tempi a noi più vicini nuovi fattori sono intervenuti   nella dinamica del fenomeno.

L’introduzione involontaria di una specie aliena in un Paese è a tutt’oggi una delle cause principali dello sviluppo delle emergenze fitosanitarie.  Con il termine “specie aliena” deve intendersi una specie “estranea, forestiera” (dal latino alienus = altrui, appartenente ad altri, straniero). Se le condizioni ambientali consentono all’intruso  la colonizzazione  del nuovo territorio, frequentemente si può avere uno sviluppo incontrollato del nuovo arrivato, non contrastato dai sui antagonisti (parassiti e predatori), talvolta assecondato anche dalle favorevoli condizioni ambientali (disponibilità di cibo, condizioni climatiche idonee ecc.). In alcuni situazioni la specie aliena, se particolarmente avvantaggiata dal nuovo habitat, può prendere il sopravvento sulle specie autoctone affini.

La  globalizzazione, con il conseguente intensificarsi degli scambi commerciali tra Paesi anche molti lontani, ha ridotto distanze geografiche  e i tempi di spostamento delle merci, con prevedibili vantaggi per le specie dannose che viaggiano “clandestinamente” con esse. Anche gli spostamenti di persone – ad esempio attraverso l’attività turistica – possono contribuire a favorire la diffusione di specie indesiderate.

Numerose specie hanno saputo approfittare dei traffici commerciali per diffondersi oltre il loro areale d’origine molto prima dello sviluppo della globalizzazione.
Dalla zona andina del Sud America la Peronospora della Patata (Phytophtora infestans) giunse in Europa a metà del XIX secolo, verosimilmente attraverso tuberi infetti, sicuramente agevolata dalla navigazione a vapore che accorciava le distanze tra Nuovo e Vecchio Mondo.
In tempi a noi più vicini arrivano nei nostri campi, sempre dal oltre atlantico, la Dorifora della patata (Leptinotarsa decemlineata) e la Piralide del mais ( Ostrinia nubilalis ), fino alle più recenti emergenze quali la Batteriosi del Kiwi (Pseudomonas syringae pv actinidiae), il Colpo di fuoco batterico delle pomacee (Erwinia amylovora), la Diabrotica (Diabrotica virgifera virgifera), la Vespa cinese del castagno (Dryocosmus kuriphilus), la Cimice asiatica (Halyomorpha halys) ecc.

Ovviamente il rischio dell’introduzione di specie aliene non interessa unicamente il nostro continente.  La Lymantria (Lymantria dispar) è un lepidottero che allo stadio larvale si ciba delle foglie di diverse essenze arboree (es. pioppi, querce, aceri, vite, pomacee, drupacee) . Introdotta accidentalmente nel Nord America sta provocando seri danni a boschi e colture. La Vespa del legno (Sirex gigas) nei nostri ambienti solitamente è contenuta in modo efficace da diversi parassiti, cosa che purtroppo non è avvenuto nei Paesi in cui si è diffusa, dove questo imenottero si è reso responsabile di gravi danni ai boschi di conifere.

E’ a partire dagli anni ’60 del secolo scorso che è progressivamente aumentato il fenomeno dell’introduzione nel nostro Paese di specie aliene. Da studi che fanno riferimento al periodo 1945 – 2004 si evince che le specie esotiche introdotte nel nostro Paese provengono prevalentemente dall’America (37%) ed all’Asia (29%). Il 63% di questi invasor appartengano al raggruppamento degli Emitteri (es. Cimice asiatica ). Seguono i Coletteri con il 12% (es. Dorifora della patata, e Diabrotica) e  Ditteri (7%; es. Mosca del noce). Chiudono la classifica i Lepidotteri, Tisanotteri e acari, ciascuno con un 6%.

Per quanto detto sino a questo punto si potrebbe essere portati a credere che questi nuovi arrivati abbiano sempre e comunque altissime probabilità di colonizzare con successo i nuovi ambienti. In realtà non tutte hanno buone possibilità di affermarsi, anzi. Molte sono destinate a soccombere perché incapaci di colonizzare il nuovo habitat (condizioni climatico/ambientali avverse, mancanza di piante che possano offrire cibo e/o riparo ecc.). Qualcuno ha provato a quantificare quale sia la probabilità di successo dei nuovi arrivati nel colonizzare il nuovo ambiente.  Williamson (1996) ha elaborato la così detta Regola empirica del 10% (Ten percent rule) che può essere così sintetizzata: su 100 specie aliene introdotte solo 10 si insediano stabilmente e di queste solo 1 diviene effettivamente invasiva. Anche se si tratta di una regola empirica  che ammette diverse eccezioni e che suscita diverse critiche, essa ci dice anche un’alta cosa importante. Anche se il numero di specie invasive  sembra essere rilevante, dobbiamo pensare che probabilmente risultano di gran lunga  maggiore il numero di specie importate che conducono un’esistenza più discreta, senza avere all’apparenza alcun impatto sull’ambiente e le attività economiche dell’uomo.

Il cambiamento climatico è destinato a influenzare profondamente il nostro futuro e le attività economiche, e tra queste principalmente l’agricoltura. Diversi studiosi hanno cercato di capire quale potrebbe essere l’impatto di questo cambiamento  nello svilupo delle malattie delle piante e nelle infestazioni degli insetti fitofagi.
Relativamente alle specie aliene il mutare del clima può sortire principalmente due tipi di conseguenze:
favorire l’insediamento di specie esotiche nei nostri ambienti;
creare condizioni favorevoli/sfavorevoli allo sviluppo di patogeni o insetti originari dei nostri ambienti.
La Mosca della frutta  (Ceratitis capitata) è una specie storicamente presente nel Sud Itali ove allo stato larvale danneggi i frutti di diverse specie. Fino a non molti anni addietro la sua presenza al Nord era sporadica e la si riteneva incapace di sopravvivere ai rigori invernali.  L’aumento delle temperature minime invernali potrebbe aumentare le probabilità di sopravvivenza di questo insetto, favorendo l’espansione del suo areale verso Nord.
Anche le specie autoctone potrebbero però essere favorite da condizioni ambientali modificate (inverni più miti, estati torride più frequenti ecc.). Al pari dell’esempio precedente si avrebbe una minore mortalità invernale delle forme svernanti, anticipata comparsa di infestazioni, possibile aumento dei cicli riproduttivi ecc.

Il cambiamento delle tecniche agronomiche (lavorazioni del terreno, successioni colturali, scelta delle varietà ecc.) possono modificare le condizioni colturali favorendo lo sviluppo di patogeni e insetti.

Nei cereali a paglia il sempre più frequente ricorso alla monosuccessione o ristoppio (successione della coltura a sé stessa) aumenta i rischi di attacco di funghi responsabili del complesso noto come Mal del piede dei cereali.
Altri patogeni dei cereali già presenti nei nostri ambienti e che in anni recenti hanno causato danni di danni di notevole rilevanza economica sono la Septoriosi del frumento (Septoria tritici e Stagonospora nodorum) e la Fusariosi della spiga. Quest’ultima è dovuta a funghi appartenenti a diverse specie (in particole si citano Fusarium graminearum, F. avenaceum, F. culmorum, F. poae e Microdochium nivalis) capaci di colonizzare le spighe del frumento tenero e duro e di altri cereali a paglia nella fase di fioritura. La loro azione dannosa si esplica soprattutto attraverso la contaminazione delle cariossidi con micotossine, metaboliti fungini secondari capaci di svolgere azioni tossiche su l’uomo e gli animali.
La contaminazione della granella con micotossine è divenuta particolarmente importante anche sul mais dove la spiga può essere contaminata da funghi produttori di micotossine appartenenti principalmente ai generi Aspergillus spp.,e   Fusarium spp.

Angelo Sarti

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