Specie originaria dell’Asia Centrale, la  canapa fu utilizzata come pianta tessile forse fin dal Neolitico. In Italia, sebbene la sua  diffusione sia  molto antica, raggiunse la massima importanza solo alla fine dell’Ottocento.

La coltivazione era concentrata soprattutto in Emilia – Romagna, dove le province di Bologna e Ferrara fornivano oltre il 44% della produzione nazionale di fibra. Solo le sterminate pianure della Russia  potevano fornire una produzione di fibra quantitativamente superiore a quella italiana, consentendole di affermandosi come primo produttore mondiale. La  fibra di canapa non serviva solo per tessere tessuti destinati all’abbigliamento o alla biancheria. Per molti secoli  la canapa fornirà la materia prima per vele e cordami alle marinerie di tutto il mondo. La produzione  emiliano – romagnola  verrà in buona parte avviata ai mercati inglesi per la produzione di velame. Anche le vele delle caravelle di Colombo erano fatte di canapa.

La coltivazione di questa specie richiedeva   una elevata professionalità,oltre che un notevole impegno lavorativo. Una volta tagliate, le piante erano lasciate essiccare in campo, quindi  gli steli venivano  sbattuti a terra per liberarli dalle foglie secche, e riuniti in fasci da avviare alla macerazione. Questa avveniva all’interno di appositi bacini, i maceri.

Nei maceri i fasci erano riuniti a formare  zattere (i “postoni”), costituite da più strati (dette”mani”) di fasci. I postoni erano poi caricati con pesanti sassi per provocarne l’affondamento. In queste condizioni avveniva la macerazione. E’ questa l’immagine più caratteristica della lavorazione della canapa, ma  allo stesso tempo è anche la  fase fondamentale per  ottenere la  fibra.

Affinchè questa possa separarsi  dalla parte legnosa del fusto (il canapuolo) occorre che alcuni batteri specifici possano attaccare e digerire le pectine, sostanze che cementano le fibre alla parte legnosa, favorendone  il distacco.  Per il completamento di questo processo microbico occorreva all’incirca una settimana.

Completata la macerazione si rimuovevano  i sassi liberando i fasci, che dovevano essere lavati,  per eliminare la fanghiglia, e fatti asciugare. Queste operazioni costringevano gli agricoltori a lavorare, spesso per diversi giorni, immersi nell’acqua  resa maleodorante dalla macerazione.  Una volta  essiccati gli steli  si poteva procedere alla  rottura, tramite scavezzatura, della parte legnosa per liberare la parte fibrosa ( il tiglio). Con la  pettinatura  del tiglio si allontanavano  le ultime parti legnose.

L’eredità colturale della canapa è ancora presente nel nostro linguaggio. A Bologna esiste una via detta “Bassa dei sassi”, poiché in essa si teneva un vero e proprio commercio dei sassi utilizzati nei maceri. Ancora oggi nel bolognese l’appezzamento di terreno viene chiamato “canver” ossia “canepaio”,  a richiamare una superficie destinata alla coltivazione della canapa.  Nelle serate invernali diverse famiglie contadine si riunivano nelle stalle ( il rito del “treb”) per trascorrere assieme la serata. Per ragazzi e ragazze era una occasione per  incontrasi e socializzare. Poiché al “treb” spesso le donne filavano la canapa, l’espressione “fare il filo” è passato a indicare il corteggiamento: proprio come il paziente lavoro con cui da una mannella di canapa si ricava un filo . Analogamente, con  il termine “filarino” non si indicava solo lo strumento per la filatura della canapa, ma anche il corteggiatore , cioè chi faceva “il filo” alla ragazza.

Con l’inizio del Novecento si avvierà il lento declino della canapicoltura. Nuove fibre tessili, prima il cotone poi più tardi le fibre sintetiche, insidiano la canapa e l’epoca della marina velica è ormai tramontata. Finito anche il sogno autarchico del Ventennio e la speranza di rilanciare la canapa, la crisi della canapicoltura si accentuerà anche per le difficoltà di meccanizzare integralmente il ciclo colturale, fino ad arrivare alla completa scomparsa di questa pianta dalle nostre campagne.

Solo da pochi anni si è riscoperto questa pianta, riproponendone la coltivazione. Ma questa è un’altra storia.

Angelo Sarti